Incontro con i finalisti del Premio Strega
Incontro con i finalisti: Andrea Bajani, Nadia Terranova, Elisabetta Rasy, Paolo Nori e Michele Ruol
conduce Francesca Angeleri
Dopo il XII Premio Strega Europeo assegnato durante il Salone Internazionale del Libro di Torino, come ogni anno lo Strega Tour fa tappa al Circolo dei lettori, portando a Torino le scrittrici e gli scrittori finalisti alla LXXIX edizione del Premio Strega promosso dalla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, in attesa della finale del 3 luglio al giardino del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma.
Strega Tour è promosso da Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, Liquore Strega e BPER Banca
Andrea Bajani L’anniversario (Feltrinelli)
Proposto da Emanuele Trevi:
«È una storia eccezionale, quella di Bajani, che infrange un vero e proprio tabù: nelle prime pagine del libro incontriamo il protagonista che ci racconta dell’ultima volta che ha visto i suoi genitori, prima di voltare le spalle per sempre alla sua famiglia, disgregata dalla violenza del padre-padrone e dalla muta, disperata sottomissione della madre. Per delineare un’immagine credibile di questo inferno domestico e della fuga senza ritorno del protagonista, il narratore ricorre alle risorse del romanzo per mettere ordine nei dati dell’esperienza, spiccando quel salto mortale capace di condurlo dall’informità del “reale” alla consistenza e alla leggibilità del “vero”. Ed è solo così che una vicenda singola si trasforma in uno specchio in cui tutti i lettori possono intravedere qualcosa che non conoscevano direttamente, eppure li riguarda. L’anniversario è un romanzo avvincente e originalissimo, che colpisce chi legge come un pugno nella testa e nella pancia. Bajani non sente il bisogno né di condannare, né di perdonare, e ci racconta quanto sia impervia e necessaria la via del riscatto.»
Nadia Terranova Quello che so di te (Guanda)
Proposto da Salvatore Silvano Nigro:
«“La famiglia è la storia che ti racconti, il modo in cui te la racconti, mentre ognuno vive il suo pezzo di vita, la sua parte nel gruppo, a tratti indifferente alla versione degli altri. Scrivere è interrompere il non detto, o crearne uno nuovo… scrivere è creare un incantesimo; se lo scrivo accade. Scrivere è spezzare un incantesimo: se lo scrivo, non accade più”. La citazione magistralmente ritmata è stata sfilata dal grandioso romanzo di Nadia Terranova, Quello che so di te, pubblicato dall’editore Guanda. È una illuminante dichiarazione di intenti; e anche un’indicazione di lettura. Il romanzo di Nadia Terranova non è infatti una cronaca familiare che guarda all’albero genealogico. È una continua interrogazione di una Mitologia Familiare, saggiata, corretta, verificata o contraddetta, dove il detto e il non detto, il silenzio e la parola, il pudore e l’autoinganno, il sogno e la realtà, la solitudine e l’orfanezza, la superstizione e la fatalità, sono passioni dell’enunciazione: in un romanzo che, prima di tutto, guarda al valore letterario, grazie anche all’esattezza di una lingua sapientemente tersa.
L’asse della storia è dato dalla ricostruzione di un caso di follia in famiglia, che diventa un viaggio nel tempo e nei corpi di una bisnonna e della narratrice: due diverse esperienze della maternità, tra dolori, incanti e alchimie fisiologiche; sull’esser donne e sull’esser padri, con sgomento e paure. Non manca, nel romanzo autobiografico di Nadia Terranova, la consueta memoria di un paesaggio d’affetto. È il quadro della sua Messina ferita dalla guerra e dal terremoto, ma sempre magica, sotto i riflessi lattiginosi dell’aerea “Lupa”: una “condensa” che oscura la costa calabrese ricordando ai messinesi che la Sicilia è un’isola, basta un po’ di nebbia per separarla dal continente».
Elisabetta Rasy Perduto è questo mare (Rizzoli)
Proposto da Giorgio Ficara:
«La definizione stessa di “romanzo”, in effetti, appare insufficiente per descrivere un libro straordinariamente composito in cui l’arte del ritratto, l’affresco memoriale e la riflessione (sottilissima) su un’epoca difficile, si legano in un dettato originale. Due personaggi, un padre sognatore, allegro, sventato, inconcludente, evanescente, e a suo modo funesto, e un amico famoso e intelligentissimo, Raffaele La Capria, tengono la scena. Se il padre – aviatore sotto il fascismo, poi avvilito fainéant nella Napoli del dopoguerra – rappresenta una specie di fatale sottrazione nella vita della figlia, l’amico scrittore, uno dei sommi del nostro tempo, è il “di più” di spirito, stile e ispirazione cui ogni vita ambirebbe. La forma stessa del libro si piega con grande naturalezza ora alla vicenda del padre, progressivamente tortuosa, ora al magnifico ritratto, per quadri pressoché slegati e fermi, di La Capria: un uomo affascinato dalla “riposante superficie della vita” come dai suoi abissi; uno scrittore-filosofo che osserva il dolore nelle cose stesse; un camminatore, come Palomar, tormentato dalla nostalgia del “paesaggio perduto”…Perduto è questo mare contiene sullo stesso piano narrazione e meditazione, e memoria classica, appunti, sospensioni critiche, come in un vero romanzo. Particolarmente prezioso oggi, nel tempo della sua (decisiva?) reductio all’unum della cronaca e del resoconto.»
Paolo Nori Chiudo la porta e urlo (Mondadori)
Proposto da Giuseppe Antonelli:
«“Io, quella lì era una storia”. In Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori la vita diventa letteratura, la poesia diventa racconto. Il gioco di specchi tra le poesie di Raffaello Baldini e l’autobiografia di uno scrittore sessantenne si frantuma in acuminate schegge narrative. Frammenti di un racconto umoroso – curioso, pensoso, a tratti furioso – sul senso della vita e della letteratura. Tasselli di un mosaico sghembo il cui disegno complessivo s’intuisce solo visto da lontano, dalla distanza dei ricordi. “Io mi ricordo tutto”. E dunque memoriale degli affetti e delle letture: amarcord sempre in bilico tra italiano e dialetto. La doppia anima delle poesie di Baldini – scritte nel suo dialetto di Sant’Arcangelo di Romagna e da lui stesso tradotte in italiano – riflessa in una lingua che del dialetto trattiene l’intimo ritmo, le cadenze interiori. Esito di una lunga ricerca e di una lenta conquista, come ricorda Nori: “una lingua che non era una lingua neutra e non era una lingua scritta da uno che ci teneva si vedesse che aveva dato sette esami di filologia, era una lingua che aveva molto a che fare con l’italiano che si parlava a Parma”.
Michele Ruol Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (TerraRossa)
Proposto da Walter Veltroni:
«Per la prima volta segnalo un romanzo ai giurati del Premio Strega. Lo faccio, in primo luogo, per condividere con loro l’emozione che ho provato nel leggere le pagine di Michele Ruol. Il romanzo è il racconto del vuoto lasciato nella vita di due genitori, Padre e Madre, dalla morte improvvisa dei loro due figli, Maggiore e Minore. Tutto, in un istante, cambia senso e direzione, perde peso, si fa vuoto, puro vuoto. Ruol racconta questa deflagrazione attraverso le cose, gli spazi, gli oggetti, i momenti, i movimenti. Una scrittura asciutta rende ancora più intensa l‘emozione che si prova nel leggere le pagine di questo inventario di una vita, dopo il più devastante degli incendi.»
📌 ingresso libero fino a esaurimento posti
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